08/02/15
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Cannabis e deficit d'intelligenza, tutto da dimostrare
Contestata l'ipotesi che il consumo di cannabis provochi problemi neurofisiologici a lungo termine tali da produrre un deficit delle capacità cognitive

Una nuova analisi che tiene conto anche dei fattori di svantaggio socioeconomico mette in discussione la conclusione di una ricerca pubblicata lo scorso anno sulla base di uno studio su più di 1000 soggetti seguiti per quasi quattro decenni, in cui si evidenziava una correlazione tra il consumo massiccio dello stupefacente durante l'adolescenza e un declino del quoziente intellettivo in età adulta di Folco Claudi

Gli effetti del consumo di cannabis sul cervello sono un tema che genera spesso in ambito scientifico discussioni anche accese: sembrano ormai inoppugnabili i risultati che documentano un effetto a breve termine (48 ore) sulla memoria e su altre funzioni cognitive, dovuto al fatto che il tetraidrocannabinolo (THC), il principio attivo resposabile degli effetti della sostanza, non viene smaltito immediatamente dall'organismo. Ci sono poi altri studi a lungo termine che hanno evidenziato problemi con la vista, altri ancora con la schizofrenia, ma per ora non c'è nulla di definitivo. Inoltre, molte volte c'è il sospetto che le conclusioni scientifiche non siano del tutto scevre dal giudizio sulle droghe leggere che divide l'opinione pubblica dagli anni sessanta.

Lo stesso vale per le ricerche che riguardano l’intelligenza di un qualunque gruppo di soggetti, a causa della quantità dei fattori e delle implicazioni di cui occorre tenere conto. Il concetto in sé è già estremamente sfuggente, e le definizioni sulla base di test (tipicamente quella di Quoziente intellettivo, o QI) in passato sono state aspramente criticate perché espressione della mentalità, dell'istruzione e delle opportunità di espressione individuale delle classe dominante delle società occidentali, in particolare dei bianchi statunitensi. Oltre a ciò, non è certo facile riuscire a isolare i fattori decisivi in grado di determinarla, nell'oceano di elementi genetici e ambientali che influenzano noi tutti.

Era quindi quasi inevitabile che lo studio di Madeline Meier e colleghi pubblicato alcuni mesi fa, che combina i temi di consumo di cannabis e intelligenza, fosse messo in discussione. A farlo, con un articolo appena pubblicato  su PNAS, è Ole Røgeberg, economista del lavoro del Ragnar Frisch Centre for Economic Research di Oslo, secondo il quale la conclusione raggiunta dal gruppo di Meier, vale a dire che esista una correlazione tra l’uso massiccio della droga nell'adolescenza e una diminuzione del quoziente intellettivo nell’età adulta, deriva da un approccio metodologico scorretto.

Il gruppo di Meier aveva lavorato sui raccolti dal Dunedin Longitudinal Study, nel corso del quale più di mille abitanti della Nuova Zelanda nati nel 1972 e nel 1973 sono stati seguiti dalla nascita ai giorni nostri, rispondendo periodicamente a questionari su comportamenti e stili di vita e sottoponendosi a test per valutare diversi parametri neuropsicologici.

Concentrandosi in particolare sul consumo di cannabis nell'adolescenza e sull’andamento del quoziente intellettivo (QI) negli anni, Meier e colleghi avevano ottenuto una correlazione statisticamente significativa: nei soggetti che riferivano un consumo massiccio della droga da adolescenti si osservava un declino significativo del QI al trentottesimo anno di età. I ricercatori ne avevano quindi concluso che lo sviluppo neurobiologico fosse influenzato in modo negativo e permanente dalla cannabis.

Gli effetti neurobiologici a lungo termine, in particolare quelli che influenzano il QI, del consumo di canabis in età giovanile sono ancora materia di dibattito.  (© Neal Preston/CORBIS)
Le obiezioni di Røgeberg, supportate da una sua diversa analisi dei dati, sono quelle classiche della statistica applicata alle scienze biomediche e alla psicologia. In primo luogo, come avvertono tutti i manuali sull’argomento, la correlazione tra due fattori A e B non implica di per sé una relazione di causa ed effetto, ma solo che essi ricorrono insieme. Se la correlazione risulta statisticamente significativa, ci sono tre possibili ragioni: un’alta probabilità che A sia causa di B, che B sia causa di A, oppure che entrambi si presentino contemporaneamente in dipendenza di un terzo fattore non considerato o escluso in modo metodologicamente scorretto dall’analisi.

Tornando alla connessione tra cannabis e QI, come si può affermare che sia la droga a determinare una diminuzione dell’intelligenza e non che, viceversa, un deficit cognitivo predisponga a consumare stupefacenti? In secondo luogo, nello studio di Meier sono stati esclusi tutti i fattori che potrebbero confondere i risultati?

Da economista, Røgeberg punta sullo stato socieconomico, la cui influenza sul quoziente intellettivo è stata dimostrata da numerosi studi. “Chi sono gli adolescenti che arrivano precocemente al consumo di cannabis?” si è chiesto il ricercatore norvegese. Il gruppo di Meier non avevano approfondito il tema ma le numerose pubblicazioni sulla coorte di Dunedin permettono di rispondere: si tratta tendenzialmente di soggetti con scarsa capacità di autocontrollo, con precedenti problemi di condotta e altri fattori di rischio collegati allo status socioeconomico. Non è un caso infatti che nel gruppo dei forti consumatori abituali di cannabis la comunità Maori, una fascia penalizzata della popolazione soprattutto nelle comunità inurbate, sia sovrarappresentata.

Per dare concretezza alle sue critiche, Røgeberg ha condotto una simulazione statistica che ha tenuto conto dei fattori socioeconomici. Risultato: la correlazione individuata da Meier e colleghi si è riprodotta, ma l’effetto causale del consumo di cannabis sulla neurofisiologia si è fortemente ridimensionato. Al punto tale, scrive Røgeberg, che l’effetto netto complessivo probabilmente è nullo.

Differenti approcci, differenti risultati, dunque. E non è detto che la parola di Røgeberg sia quella corretta e definitiva sull’argomento. Solo ulteriori analisi dei dati della coorte di Dunedin potranno dire se si avvicina più alla verità la prima o la seconda intrpretazione. La strada da seguire è in qualche modo tracciata: occorre distinguere se e in che misura il declino nel QI sia da attribuire a un effetto neurotossico della cannabis e in che misura invece c'entri lo svantaggio socioeconomico dei soggetti.

di Folco Claudi

tratto da Le Scienze



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